2 maggio 2011

"Uno alla fine può sempre farsi una passeggiata sul Bosforo"

Ho quasi lasciato passare un mese: perchè ci sono state le vacanze, perchè dovevo studiare (dovrei tuttora), perchè oggi piove, perchè non mi sentivo ispirata.

Fatto sta che stasera sono nel mood giusto, sarà perchè ad aprire la finestra si sente odore d'estate...
No, più prosaico, sarà che non ho un cazzo da fare e in tv c'è solo roba pessima.
Sì, meglio.

Circa due settimane fa mi trovavo ad Istanbul: penso sia importante scriverlo qui, dal momento che è il posto in cui sognavo di andare da circa un secolo.
A gennaio è arrivata la decisione dei miei:
"Noi pensavamo di fare Pasqua ad Istanbul"
"Vengo anch'io"
"Ma non vuoi mai venire con noi, dici che ti annoi!"
"E' Istanbul."
Il 22 aprile attraversavo il ponte sul Bosforo a bordo di un pulmino.
Due coppie di quarantenni lombardi non la finivano più di raccontarsi a vicenda i propri viaggi: Shangai, Londra, Los Angeles, i Tropici. Mi chiedevo se facessero così ogni volta, se non prestassero puntualmente alcuna attenzione al luogo in cui si trovavano per vantarsi di quelli in cui già erano stati. Io non riuscivo a scollare gli occhi dal finestrino (anche perchè quella davanti a me aveva i capelli di un brutto punto di biondo, e non era un bel vedere).
Avevo in testa la città di Pamuk, decadente e un po' intristita, visioni romantiche del Mare di Marmara e dei battelli al tramonto. Mi sono trovata in una specie di grande centro commerciale all'aperto: troppi turisti chiassosi, troppa paccottiglia solo a loro (noi) riservata. Entrare nella Moschea Blu sghignazzando, a capo scoperto, cos'è? Un modo per dire quanto siamo laici ed fighi?
Coglievo sprazzi di realtà nelle moschee più piccole, in cui un uomo passava l'aspirapolvere mentre a terra era rimasto un rosario musulmano, nei richiami alla preghiera, cinque volte al giorno, o nel mercato dei contadini, di fianco al Gran Bazar, dove una signora tentava di spiegarmi l'uso medico delle sanguisughe che teneva in un gran secchio.
A quel punto, però, ero già rassegnata al fatto che tutto ciò che avevo immaginato non fosse null'altro se non un'invenzione letteraria.
Non fraintendetemi: ho trovato Instanbul bellissima, oltre ogni previsione, solo che quella che immaginavo era un altro tipo di bellezza, che non saprei come spiegare in realtà...
Insomma, ero un po' incazzata con Pamuk: come puoi passare la vita a scrivere di una città e nel scriverne renderla così irrealistica?
Poi, però, l'ultima sera solo stata ad Ortake: una meravigliosa piazzetta sul Bosforo, con una piccola moschea alle cui spalle sta il ponte illuminato, mentre nei vicoli circostanti si trovano locali di ogni tipo e chioschetti in cui preparano la roba più assurda (nota speciale per un'enorme patata alla brace, aperta e farcita con qualsiasi cosa, che trovi praticamente nelle mani di chiunque).
Bene, fermandomi ad un negozio di stampe e vecchie cartoline ho ritrovato la mia Instanbul: una foto in bianco e nero mostra una strada quasi deserta, se non per qualche macchina ed un passante. "Beyoglu, 1930".
Si tratta di un quartiere nella parte europea di Instanbul, citato spesso ne "Il museo dell'innocenza" dal mio caro Orhan: è stata una città reale, solo che lo era 80 anni prima che potessi vederla!
In questo momento la foto in questione si trova sul mio armadio: non ho trovato esattamente la stessa su internet per poterla caricare qui, ma sono riuscita a scovare qualcosa di simile.


Credo sia la stessa via ritratta nella mia, presa da una diversa angolazione.
Conclusione: non sono più incazzata con Pamuk e continuerò ancora ad adorarlo, specie da quando ho scoperto che da piccoli, quando ci trovavamo soli,  facevamo gli stessi giochi assurdi (ma forse è una cosa comune a tutti i marmocchi quando giocano da soli, non saprei).
Prima di apporre la mia firma a questo papello, però, ci tengo a riportare che ho portato i miei ad ubriacarsi di raki, tra le proteste di mia madre e la malcelata soddisfazione di mio padre: ubriacatura preceduta da imbarazzante conversazione con il gestore musulmano di un locale in cui, ovviamente, non si poteva consumare alcol e dagli ammiccamenti del vecchietto che "i'll take you where you can find it".
Credo che tornerò ad Instanbul, correrò il rischio di vedere la moderna Beyoglu, magari con un compagno amante dei viaggi, se mai ne troverò uno, nel frattempo vi porgo i miei omaggi!

Marzia

1 commento:

  1. Comunque nel 500 D.C. la Costantinopoli capitale dell'Impero romano d'Oriente era tutta un'altra città, bisogna dirlo... niente lombardi quarantenni, tipe bionde bionde bionde o pulmini ...poi uno resta qui, xv secolo, nella logorante quotidianità e certa gente va in vacanza per la Turchia a mangiare le patate alla brace e bere raki...non fa piacere...

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